Mimmo Jodice
La splendente è il titolo di un libro, pubblicato da Feltrinelli, scritto da Cesare Sinatti, giovane filosofo laureato a Bologna. La splendente è Elena di Troia. Ho acquistato questo bel saggio per il soggetto, naturalmente, ma ciò che mi ha attratto a prima vista è stata la foto di copertina, nella quale ho riconosciuto la mano di Mimmo Jodice – lo considero il maggiore, anzi l’unico fotografo dell’antico –. Jodice osserva e medita. Legge. Il suo messaggio fotografico ha una struttura linguistica che dall’esterno rinvia all’interno, dalla superficie alla profondità, all’infinitamente altro che si può dedurre se, invece di limitarsi a vedere, ci si perde a guardare. Nella sua lectio magistralis del 16 novembre 2006 tenuta presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, cita una frase di Fernando Pessoa, a lui molto cara al punto di sentirsi rappresentato: «Ma che cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare?» Ecco la sua inclinazione naturale: perdersi a guardare, contemplare, immaginare, cercare visioni oltre la realtà. Capace di uno sguardo lento, ha in sé, come egli stesso ammette, il bisogno di fantasticare, qualità che oggi si vanno perdendo sempre di più, nella fretta di afferrare la realtà delle cose per passare oltre e accumulare testimonianze e informazioni. Con Jodice, la fotografia diventa un autentico saggio in cui confluiscono tutte le espressioni dell’arte del passato, un «immenso serbatoio di emozione e riflessione. Non si può non partire dalla storia delle cose create dai grandi maestri che ci hanno preceduto. Bisogna lavorare sulla base di una conoscenza profonda dell’eredità artistica ricevuta».
Mimmo Jodice: la sua tecnica lavorativa rimane ancorata alla camera oscura
Date queste premesse, si comprende come anche la sua tecnica lavorativa rimanga saldamente ancorata alla camera oscura, elemento basilare dell’attività dell’artista. Le possibilità espressive offerte dal lavoro manuale in camera oscura sono, pur nella loro diversità, paragonabili al lavorio del pittore che mescola i colori sulla tavolozza per creare la sfumatura di sua personale invenzione o del letterato che cesella le frasi con l’orecchio sempre teso all’allusione antica e alla lenta ma costante trasformazione del linguaggio. E non è un caso che gli esordi di Jodice siano rivolti alla pittura e che con la pittura e i pittori egli mantenga sempre stretti rapporti. La camera oscura permette di frammentare l’immagine e di ricomporla, adoperando i procedimenti noti con il nome di polarizzazione, solarizzazione, sgranatura, sovrapposizione, sovraimpressione, viraggi, movimento in fase di stampa, collage. Sono appunto tecniche che permettono a Jodice quasi di dipingere mentre stampa il negativo. A ciò si deve aggiungere l’uso della luce, che costituisce forse il più grande contributo di Jodice. Un uso assoluto, potente che si aggiunge alle altre molteplici possibilità del lavoro manuale in camera oscura.
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Immagine in evidenza Apollo da Baia, 1997