18 Marzo 2020 di Redazione Redazione
 Mimmo Dabbrescia ha lavorato fin dagli anni Cinquanta come fotogiornalista, entrando nel 1961 al Corriere della Sera. Successivamente fonda una sua agenzia e ha l’occasione di fotografare i maggiori cantanti per le principali case discografiche. Tra gli esordienti ce n’è uno dallo sguardo timido: siamo a Genova e lui si chiama Fabrizio.
Per quale ragione un giorno di giugno del 1969 partisti alla volta di Genova con l’obiettivo di fotografare un giovane sconosciuto di nome Fabrizio De André? «Sono andato, in sostanza, perché in circolazione non c’era ancora materiale fotografico disponibile su di lui. Stava registrando un disco e alla casa discografica cominciavano ad arrivare delle richieste di ritratti. Foto che non esistevano. Fui incaricato, quindi, di organizzare una spedizione alla volta di Genova. L’appuntamento mi venne fissato da Puny, sua moglie. Arrivo puntuale a Genova e mi accoglie lei dicendomi che Fabrizio non c’era. Con mille difficoltà, dopo oltre due ore di ricerca, riesce a rintracciarlo e si scopre che è a Londra. Me lo passa al telefono e lui, candidamente, mi dice: “Belin, mi ero dimenticato”. Scusandosi, sposta l’incontro a due giorni dopo e così, trascorse 48 ore e pieno d’incertezza, riparto per Genova con la mia Fiat 500. Al secondo tentativo, per fortuna, si fece trovare e da quel giorno diventammo amici».
Fabrizio De André

© Mimmo Dabbrescia

Che persona trovasti? Che impressioni hai avuto in quei primi momenti? «De André si è dimostrato, da subito, molto disponibile; cordiale ed educato, si scusò nuovamente per la “buca” che mi aveva dato. Alla fine di quella giornata, salutandomi, mi disse che sicuramente avevo perso del tempo e che quelle foto si sarebbero dimostrate inutili. Accadde invece che alcune iniziarono a uscire sui giornali e così quando tornai da lui la seconda volta mi accolse alla genovese apostrofandomi scherzosamente con un “uè, Dabbrescia, belin, con le mie foto ti stai facendo i soldi!».
Queste foto sono nate per un’esigenza contingente, quella di avere materiale disponibile per promuove un nuovo giovane cantautore. Sono passati venti anni dalla sua scomparsa, le stesse fotografie hanno avuto altre vite successive? «Devo molto, anzitutto, a Guido Harari. Avevo archiviato una volta per tutte queste foto appena terminata la loro funzione iniziale senza pensare in prospettiva, tale era la mentalità dei fotoreporter di allora. Anni fa mi chiamò Guido dicendomi che stava preparando un libro su De André, da lui seguito per molto tempo. Non aveva però immagini relative al primo periodo e mi chiedeva di poter inserire nel volume alcuni dei miei scatti. Così è stato. Da questa ripartenza, le fotografie hanno iniziato a circolare, conoscendo una nuova vita. Sono così entrato in contatto con Dori Ghezzi mettendole a diposizione della Fondazione da lei creata e successivamente sono state esposte in decine di mostre. Da qui c’è stato anche un crescente interesse da parte di alcuni galleristi e collezionisti».
Fabrizio De André

© Mimmo Dabbrescia

Il periodo in cui l’hai più volte fotografato va dal 1969 al 1973, poi avete continuato in qualche modo a vedervi, a sentirvi e a scrivervi? «No, in quel periodo stavo concludendo la mia fase musicale in termini di produzione fotografica e mi stavo spostando verso il mondo dell’arte con ritratti ai grandi pittori. Dunque, iniziai a frequentare altri ambienti. Casualmente, anni dopo – era il 1975 –, l’ho rivisto durante una serata al teatro Manzoni di Milano. Ci siamo salutati e mi ha presentato Dori Ghezzi che era con lui – si frequentavano da poco –. Ho continuato a seguire con molto interesse il suo percorso acquistando e ascoltando nel tempo l’intera sua produzione. In famiglia siamo tutti, da sempre, suoi grandi estimatori».

Mimmo Dabbrescia

Mimmo Dabbrescia

Mimmo Dabbrescia nasce a Barletta nel 1938. Negli anni ’50 arriva a Milano e più tardi inizia a lavorare con Fedele Toscani. È assunto successivamente dal Corriere della Sera, di cui è il più giovane fotoreporter, realizzando reportage in tutto il mondo. Nel 1963 apre una propria agenzia continuando a lavorare per settimanali e anche per case discografiche. Durante gli anni ’60 e ’70 ritrae molti perso- naggi della musica e del cinema. Negli anni ’70 si avvicina al mondo dell’arte a cui rimarrà fedele. Intraprende un percorso fotografico alla ricerca del lato meno noto dei pittori e nel ’75 fonda la rivista Prospettive d’arte che dirigerà per oltre vent’anni. Realizza molti volumi monografici sui pittori contemporanei. Un viaggio con Salvatore Fiume in Polinesia sulle orme di Gauguin, porta all’edizione del volume Omaggio alla Polinesia. Negli anni Novanta e Duemila ha realizzato reportage in Thailandia, Cina, Cuba, Messico, Marocco, Tanzania, India, Vietnam
di Lorenzo Bertolucci

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